Roccaraso, il Giro e il suo strano potere
Montanelli: quando passa è sempre domenica
PESCARA _ Era la notte del 6 giugno quando Indro Montanelli, al seguito del Giro d’Italia del 1947 (tappa Foggia-Pescara), scriveva una frase che avrebbe indelebilmente fotografato il senso del Giro d’Italia, non solo gara sportivo ma coacervo di sentimenti magari oppostri, laceranti che conservano però nel loro intimo il senso dell’avventura, della fuga dal quotidiano. E giovedì 12 maggio per l’ottava volta questo appuntamento si rinnoverà a Roccaraso, la località sciistica degli Altipiani Maggiori che dagli anni Cinquanta è diventata un passaggio classico per la prima parte della corsa rosa, grazie a Vincenzo Torriani che aveva la moglie originaria della valle Subequana con parentela nella Marsica e nel Lancianese. Roccaraso, così, con una certa cadenza _ come capiterà di lì a poco anche al Block Haus dove addirittura si concluse di fatto un giro dell’epoca di Francesco Moser _ diventò la prima asperità, il primo assaggio di montagna in attesa delle Alpi, in grado di dirci chi sicuramente non avrebbe vinto quell’edizione del Giro.
Ma il Giro non è solo pedalate e fatica, «Il Giro d’Italia ha uno strano potere _ scrive Montanelli nel lontano giugno 1947 _ quello di trasformare in domenica ogni giorno della settimana». Il Giro è sinonimo di spensieratezza, di felicità, non si va scuola ma anzi le scolaresche negli anni saranno sempre più protagoniste nell’allestire il cerimoniale di accoglienza alla carovana rosa. Il frullare delle ruote genera quel groppo in gola che è un po’ allegria e un po’ emozione per quell’attimo del passaggio, una felicità effimera e di breve durata ma che riempie gli occhi dei colori delle maglie, scandisce nelle orecchie i nomi dei beniamini dopo una lunga attesa. Attesa contrastata come quella del “Bartali” di Paolo Conte, ma pur sempre foriera di dolci incontri con i propri beniamini fra mazzi di fiori, abbracci e secchiate d’acqua non sempre ben accette dagli eroi del pedale. «A differenza di quelle dei paesi protestanti, le domeniche dei paesi cattolici odorano di vino _ prosegue Montanelli _ di brillantina e di peccato». Che fa il paio con un’altra canzone di Paolo Conte, “Una giornata al mare”: «Dico due balle a un tizio seduto su un’auto più in là, un’auto che sa di vernice, di donne, di velocità». Con la stessa velocità con cui ci si appalesa il Giro d’Italia scompare all’orizzonte. «Essi torneranno domani alla dieta ordinaria e ai capellini in brodo, alla faticata, beatissima noia di tutti i giorni».
Il Giro porta allegria ed evasione ma non scalfisce usi e costumi, convinzioni e caratteri degli italiani. Nelle cronache del Giro d’Italia edizioni 1947 e 1948, di Indro Montanelli che il Corriere della Sera ha raccolto nel volume “Indro al Giro” ci si imbatte anche nel classico gregge di pecore, accostamento con l’Abruzzo magari un po’ obsoleto ma che viene facile. Anche il pastore si crea la propria domenica assistendo al Giro. «Abbiamo visto su un trattuto _ scrive Montanelli _ sul quale si convogliava un placido fiume di pecore che dalla pianura pugliese i pastori riconducevano a estatare sul monyagnoso Abruzzzo, improvvisarsi, di giovedì, una domenica di bivacco ad attendere il Giro».
Nell’edizione del 1948, Montanelli pennella un’altra immagine arcaica dell’Abruzzo sulla cima del monte Bove che separa l’Abruzzo dal Lazio: una donna e una bambina. La donna dopo molte titubanze chiede se i corridori facevano male a qualcuno. Rassicurata dal giornalista, raccontò alla bambina ma forze più a se stessa, che «suo padre fu il primo in quella contrada a vedere passare una bicicletta e corse asl paese ad annunziarlo a tutti gli uomini; tenuto consulto e stabilito che un mostro cosiffatto non poteva essere altri che il lupo di Pretorio, si armarono di forconi e con essi vennero sulla strada per accoglier degnamente il malcapitato. Il quale, per sua fortuna, era già scomparso all’orizzonte». Il monte Bove non separa solo due regionie _ dice Montanelli _ ma due civiltà. «E nell’impervia e chiusa civiltà abruzzese le favole non sono monopolio dei bambini, come altrove. Esse sono il modo di sentire e di rappresentare anche dei grandi. Questa è la sola terra d’Italia dove i lupi circolino ancora per le strade dei villaggi e, vestiti da uomini, e il serpente possa insinuarsi nei letti delle ragazze per sedurle». L’amico Beniamino De Ritis _ secondo Montanelli _ il lupo e il serpente se li è sempre portati con sé nei numerori viaggi intorno al mondo «Sessantenne fanciulllo dagli occhi azzurri, come tutti gli abruzzesi che, con gli anni, non invecchiano, si fanno antichi, antichi bambini».
«Solo questa ingenua tendenza a trasfigurare tutto in favola – commenta il giornalista di Fucecchio _ può giustificare l’enorme entusiasmo col quale gli abruzzesi hanno accolto il Giro».
Dopo una tappa piuttosto noiosa la spuntò il padovano Bevilacqua. Fu grande il giubilo dei tifosi che si caricarono sulle spalle il vincitore. Nella frenesia generale un cartello colpisce l’attenzione del giornalista. Recita così: “La città di D’Annunzio saluta i corridori”. D’Annunzio? E’ stato dunque il poeta finalmente discriminato dall’amministrazione comunista della sua città? Effetti del 18 aprile o di una tessera del «fronte» concessa alla memoria del cantore di Corrado Brando? E su questo interrogativo si chiude la seconda pagina sull’Abruzzo del “Giro di Indro”. Era il 22 maggio 1948.