Cocullo, la dea Angizia, San Domenico e i serpari
|Si rinnova il rito che stregò Di Nola e deluse Manganelli
COCULLO – Venerdì Primo Maggio, invece del tradizionale primo giovedì di maggio. La tradizione dei serpari e di San Domenico torna all’antico _ potenza del richiamo turistico e quindi economico _ torna dunque alla primigenia data l’appuntamento che affonda le radici nel mito della dea Angizia, incantatrice di serpenti (capacità che, secondo la leggenda, trasmise al popolo dei Marsi, che la Chiesa ha fatto suo attraverso il santo protettore del mal di denti.
«I massicci, le valli, gli altopiani appenninici – scrive Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” – al senso del sacro; ma nessun massiccio lo porta come la Maiella abruzzese, grigia, scavata dalle grotte e quasi sempre nuvolosa. Colonie di serpari esistono tutto all’intorno, nella valle ad esempio del fiume Sagittario; anch’essa di dannunziana memoria; ed in un paese, Cocullo, per la festa di San Domenico, si usa ancora lanciare dalla folla serpi vive intorno alla statua del santo in processione, finchè ne è tutta ricoperta». I Marsi _ come già ricordato _ erano considerati abili dominatori di serpenti. La figura del serparo, evocata da Gabriele D’Annunzio nella «Fiaccola sotto il moggio», è strettamente legata alla cultura delle genti italiche, che tra la Marsica, la Valle Subequana e la Valle Peligna aveva il suo centro vitale. Corfinio non distante da Cocullo era la capitale della lega italica che a lungo guerreggiò con Roma. Probabilmente, intorno al XVI secolo, al mito di Angizia e delle sue serpentesche virtù, si sovrappone la figura di un monaco taumaturgo, vissuto fra il X e l’XI secolo. Nella lettura proposta dal celebre antropologo Alfonso Di Nola, che a lungo studiò la tradizione contadina abruzzese e la festa dei serpari, il rito cocullese rappresenta un esempio di sincretismo nel quale si intrecciano motivi religiosi arcaici e forme della tradizione cristiana.
Nel rito di San Domenico, come ricorda il volume «Il rituale di San Domenico» (a cura di Lia Giancristofaro, introduzione di Nicola Risio, fotografia di Paolo Gizzi, Editrice Rivista Abruzzese, 140 pagine, 30 euro) gli «universi dispersi del mondo tardo-antico, con le taumaturgie dei serpenti», scrive Di Nola, «si fondono con una certa rinnovata tradizione cristiana, e il santo di Cocullo diviene una sorta di eroe mitico che, per il potere carismatico, consente ai pastori e ai montanari la dominazione sulla natura avversa, sui rischi ofidici, ma anche su quelli derivanti dai cani o dalle odontalgie o dai bruchi che invadono i campi». Le condizioni storiche in cui si è sviluppato, appaiono oggi del tutto superate. La finzione del rituale, ha però conservato un carattere difensivo e rassicurante contro i pericoli della natura e le incertezza della storia. «Ogni anno la folla è densa e imponente. E il Santo, uscito dalla chiesa, avanza con difficoltà nella calca. La cerimonialità dei serpenti esige che i migliori esemplari di cervone, di bisce, di colubri di Esculapio siano apposti sul corpo del taumaturgo, e che la gente tragga auspicio e pronostico dalla posizione che le serpi assumono: se toccano il volto, la stagione della raccolta, il tempo, le fortune, entrano in crisi. Qui, in questi arcaici modelli rituali, veramente un disperso paese d’Abruzzo si costituisce in esempio residuo di un mondo antico paneuropeo. A San Giacomo di Compostela, fatto centro della pietà peregrinante dell’Europa, si maneggiano serpenti. A Marcopulos, nell’isola di Cefalonia, il giorno dell’Assunzione della Beata Vergine, il 15 agosto, le serpi entrano nella chiesa e strisciano sui messali dietro l’iconostasi, e sulla testa del pope celebrante. Le vergini greche, ogni anno, salivano all’Eretteo, sull’Acropoli e nutrivano le serpi con il latte. Sono storia calata in metafore, nell’ambiguità dei segni attribuiti ai serpenti, ora custodi sotterranei della fecondità anche fallica, ora avversari e nemici, rappresentata per eccellenza in Satana, l’antico serpente».
Il rituale che ha catturato tanti intellettuali mantenne freddo _ complice il clima di quel maggio del 1987 _ Giorgio Manganelli che nel suo viaggio in Abruzzo per il quotidiano “Il Messaggero” (gli articoli ora sono raccolti nel volume postumo “La favola pitagorica”, edito da Adelphi) racconta così: «In effetti, la festa tradizionale sembra semplicemente un rito incattivito in danno dei serpenti: sarà il freddo, sarà l’ambiente rumoroso, la folla, quella esibizione incongeniale a questi lùbrici frequentatori delle sassose pendici, ma i serpenti hano l’aria spaesata, afflitta, da vecchietti mal svegliati da un sonno invernale amico e indulgente. Tutta la mia simpatia va ai serpenti; deploro che nessun sindacato rettili intervenga in questa che non mi pare una attendibile cerimonia arcaica, ma un revival da trismo frettoloso. Mi dicono che fino a un paio di generazioni fa il rito dei serpenti era professato su un’ampia zona che scendeva fino al Fucino; ma ora è rimasta questa roccaforte irriducibile di Cocullo; il freddo e la bizzarra esibizione delle serpi lascia appena il tempo di dare un’occhiata a una di quelle chiese povere e stranamente sapienti che illuminano l’Abruzzo». A conforto del freddo e dello spettacolo che certo non l’ha catturato delle serpi lanciate contro al statua del santo, per Manganelli ci fu dunque il conforto di Santa Maria delle Grazie e il rito della campanella suonata addentando la catenella alla quale è legata.