Cataldi Madonna, vini baroni guerrieri e architetti.
|Lorenzo Pellegrini chiude Vino al vino e dice: “Andiamo ad Ofena”. Col fratello Antonio e la cugina Giulia rappresenta l’ultima generazione dei Cataldi Madonna, vignaioli e architetti.
La madre, Cristina, ha seguito le orme di suo padre, il noto Antonio (Tonino) Cataldi Madonna, uno dei maggiori progettisti della “modernità intelligente” pescarese; lo zio, Luigi, ne ha ereditato invece il mestiere in vigna, coniugandolo con la propria carriera accademica (insegna filosofia all’Università dell’Aquila).
È quest’ultimo ad accoglierci sulla soglia quando la piana di Ofena, il “forno d’Abruzzo” nell’Alto Tirino, provincia aquilana, si distende fino ai piedi dell’Appennino e la macchina si ferma davanti ad una costruzione di un rosso mattone: è la cantina di famiglia sulla cui facciata campeggiano, in bianco, la denominazione “Tenuta” e l’immagine del Guerriero di Capestrano che subito ci catapultano in una tradizione di cui ci raccontano il professor Luigi e il nipote Lorenzo, cominciando da quando, negli anni ’20, il capostipite don Luigi, dei Cataldi di Capestrano legati ai Madonna di Ofena e da questi ultimi adottato per assicurare la discendenza, iniziò l’avventura del vino.
Vinificava soltanto, lasciando imbottigliare e commerciare a Vittorio Janni di Aquila; Mario Soldati lo racconta puntualmente nelle pagine del citato Vino al vino (Mondadori), dopo un viaggio che fece tappa in Abruzzo nel 1975.
Proprio in quell’anno, quando lo scrittore piemontese conobbe don Luì, suo figlio Tonino etichettò la prima bottiglia: aveva cominciato a tirar su l’azienda dal ’68, prevedendo uno dei primi impianti automatici d’imbottigliamento della regione, e aveva poi acquisito quella paterna terminando la collaborazione con Janni.
Da quel giorno la produzione è andata trasformandosi, crescendo e affinandosi con le idee che l’attuale don Luigi applica al suo vino: non esiste un vino ostinatamente “naturale” ma è sempre frutto di mediazione fra l’uomo e la natura volta al raggiungimento di un prodotto di qualità che nobiliti il mondo delle bevande, potremmo sintetizzare così la sua filosofia di vignaiolo.
Una costante però è restata nelle etichette, salvo rari casi – come il Malandrino che tra l’altro dal 2014, privato del legno, rappresenta la linea base di rosso – che però confermano l’identificabilità di questi vini con la più risalente storia locale: perché su quella prima bottiglia del ’75 già compariva il Guerriero di Capestrano, allora sconosciuto ai più e ormai logo distintivo della civiltà italica nonché dell’azienda, disegnato dall’architetto Antonio e mai più abbandonato. Il segreto di questa affezione, oltre ad un richiamo alla gloriosa e antica storia abruzzese, è tutto famigliare: il Guerriero fu rinvenuto da un “massaro” dei Cataldi Madonna nei pressi di Capestrano.
Dal Don Luì, oggi fuori produzione, al rinomato Montepulciano Tonì fino al Pecorino Giulia e al nuovissimo “rosato” Cataldino che debutta a Vinitaly 2014 – tutti nomi che omaggiano la famiglia – si scorgono l’attenzione, la passione e l’attaccamento di Luigi Cataldi Madonna alla sua azienda, al suo vino (premiato in numerose occasioni), come se fosse un altro famigliare e come se fosse sempre capace di richiamare o rappresentare un collante che tiene assieme le memorie e la quotidianità della famiglia.
Se nella seconda non ficchiamo il naso, buttiamo invece l’occhio e il passo nelle prime. Le memorie dei Cataldi Madonna, baroni già marchesi oppure duchi come li voleva il d’Annunzio della cruda novella Il Duca d’Ofena – scritta, da come si racconta, seduto sul pozzo tuttora visibile nel giardino – sono depositate, col beneplacito della storia e del tempo, nel palazzo “barocco e borbonico” che affaccia sulla piazza del paese, occupandone una buona parte.
“Saliamo in casa, arredamento ottocentesco non rielaborato e ancora quasi completamente vero […]. C’è la consolle di marmo stile Impero. Le sedie, i tavoli e le poltrone Luigi Filippo. Alle finestre, le cortine e i pesanti tendaggi verde scuro con le loro mantovane”.
Così lo descriveva Mario Soldati e noi ritroviamo tutto come allora: mobili, arredi, suppellettili, ritratti su ritratti di avi, le pitture firmate dalla bisnonna Felicetta Paris allieva di Pasquale Celommi, il pianoforte ingombro di fotografie, i grandi registri ottocenteschi riempiti a mano dalla bella grafia dell’amministratore delle proprietà avite, il salotto dove il barone ha offerto tè – e non vino! – allo stupito Soldati, e ancora, stanza dopo stanza, il senso di una storia che si ripete: dal piano nobile alla cantina alla bottaia e poi, portando lo sguardo a valle, fino alle vigne, composte e ben radicate nella loro “nobile” origine.