PERCHÉ L’ESSENZIALE RESTI VISIBILE
L’anno dell’Expo è dedicato all’alimentazione. Ci si interroga sul destino del pianeta, delle genti, delle etnie. Sulle risorse a disposizione.
Il cibo è acclarato bisogno, quando se ne parla, tuttavia, si oltrepassano di continuo le ragioni del mero nutrirsi. Mangiare tutti, mangiare meglio: la questione si fa interrogativo divorante, problematica onnivora. Si è ciò che si mangia, spesso per costrizione, ma si è anche il cibo che si sceglie, per cultura, valutazione emotiva, ideologia, opportunismo economico, imposizione lobbistica. Soprattutto ‘diventiamo’ ciò che mangiamo: i fantasmi della malnutrizione convivono tra eccessi e sprechi della scadente o addirittura dannosa produzione industriale, tra manipolazioni di laboratorio, contraffazioni spudorate, baby cuochi creativi, mode gastronomiche falsamente intriganti e funambolismi massmediatici, sempre pronti a reinventare, con grazia spregiudicata, crudismo, cottura molecolare, fast e slow food, street food, finger food, vegan style…
Paradossalmente, quando assaporiamo un cracker di kamut guarnito da una fragola a chilometro zero, dall’esile goccia d’un aceto balsamico, stiamo già metabolizzando la complessità ambigua e simbolica del capitalismo postmoderno, sgranocchiamo già i vuoti di senso di una società hi-tech, avvinghiata con ostinato rimorso alle sane tradizioni del passato, e in più assediata dalle mille incertezze salutiste dell’era del web, in cui un sito al giorno esalta l’alimento topico che il dì successivo troveremo condannato altrove. E invertire polarità e opinioni ravviva discussioni infinite: per diffusione solo lo scrivere libri s’equipara oggi all’esibirsi in panni da chef. Cucinano tutti, giovanissimi, adulti, vip e common people, politici, registi, cantanti; lo si fa per passione, per vocazione, per ambizione, per trasgressione, per esclusione… Eppure di qualsiasi cibo si parli, si sia vegetariani, seguaci fedeli del mono-alimento o fruttariani dalle nostalgie edeniche, non andrebbe mai dimenticato che l’acqua rimane la risorsa regina del Terzo Millennio.
Acqua che scarseggia. Acqua che inquiniamo. Acqua che privatizziamo. Talvolta sorvoliamo sul fatto che, si tratti di vivere o sopravvivere, di esserci o esistere, in questo ambito non sussistono heideggeriani distinguo: il bisogno imprescindibile di acqua unifica il regno animale e quello vegetale, con democratica urgenza e necessità.
Siamo assai più ciò che beviamo, dunque, di ciò che mangiamo: se la nostra acqua è stata infettata per decenni da nitrati e cloruri, siamo malati; se la nostra acqua è stata sostituita dalla Coca-Cola, siamo snaturati e asserviti; se la nostra acqua è stata confiscata, ci siamo venduti al peggior offerente; se l’acqua poi è addirittura sparita, non è la desertificazione che incombe, visto che il nostro cuore è assai ben più deserto da tempo…
L’acqua è risorsa strategica, essenziale, oggi ancor più decisiva in Abruzzo.
La storia dell’Abruzzo è emblematicamente rappresentata da un latrocinio di questo bene, il più efferato dei latrocinii, il più perfido: i cafoni di Fontamara, nel celebre capolavoro di Silone, vengono raggirati definitivamente quando ai loro terreni da coltivare si sottrae l’acqua, perché in un cosmo povero e capovolto, ciò che è imprescindibile vanno ad accaparrarselo comunque i padroni. E poco importa se, come scrive Erri De Luca, non si dovrebbe mai fare commercio dell’indispensabile.
Quando ho considerato le finalità dell’Expo e cosa avrei potuto scrivere per agganciare il suo immaginario alla mia terra di origine, ho pensato subito all’acqua. Senza bere non si vive, ovvio, ma provate a cucinare senz’acqua, provate a preparare qualche pranzo degno di questo nome senz’acqua a disposizione!
Se avessi curato l’allestimento del padiglione, la mia coreografia avrebbe esaltato questo munifico, polimorfico elemento naturale, carico di gioia e vitalità inesauribile: Teti, la dea che dà il nome a Chieti, era una ninfa delle acque; Vasto è raffigurata da una splendida Bagnante che ammicca alle eleganti e rarefatte figure di Dante Gabriel Rossetti, una sirenetta appena emersa dalle celesti ondulazioni dell’orizzonte. Se l’emblema de L’Aquila è la Fontana delle Novantanove Cannelle, l’emblema di Pescara, città di porto, di ponti e pescatori, è la “Nave” di Cascella, mentre i litorali teatini sono ormai associati a quegli ordigni da pesca strepitosamente fragili e lirici che hanno nome ‘trabocco’. Per non dire dei comuni del teramano che stilizzano il mare nel proprio stemma: persino l’aquilana Navelli ha un’etimologia congiunta alle navi!
Nei libri che ho dedicato all’Abruzzo, ho investigato il territorio da un punto di vista geografico e storico, consigliando tour di mia creazione che collegassero i luoghi più belli o più evocativi.
Qualcosa di simile farò qui seguendo le liquide tracce dell’elemento caro a Talete, ma, ammetto fin da ora, poiché l’argomento presenta una tale vastità di agganci tematici, non potrò che sfiorarlo. Scrivere rimanda del resto costantemente a un oltre, e la sfida è guidare grazie alle parole appunto verso quest’oltre, insinuarne l’assenza, accenderne il desiderio, richiamare l’attenzione perché l’azione torni a puntare sulla realtà.
E allora partiamo dalla notte dei tempi: dall’acqua sacra, dall’acqua lustrale, benedetta dalla Grande Madre, dea degli umidi inferi e degli oceani. Nella loro toponomastica le coste d’Abruzzo sono ancora debitrici nei riguardi di Venere, la divina figura che sorse dalla spuma delle onde, simbolo di fecondità senza pari (basti ricordare il complesso meraviglioso di San Giovanni in Venere).
L’Abruzzo ha una delle riviere più variegate d’Italia: il tour dei lidi merita davvero un’incursione. Si parta dal Golfo d’Oro del profondo sud o dalla silver beach all’opposto nord, amplissime spiagge rosa, ambrate, ocra, e scogliere ammorbidite dai flutti o schiettamente irte e severe si alternano con spregiudicata esuberanza: laddove la terra e il mare s’incontrano, il numinoso s’annida in anfratti e sporgenze inattese, e il timor panico si congiunge a rotte deviate, naufragi misteriosi, amanti in fuga verso romantici eremi, pirotecnie liberatorie, foreste protese sull’azzurro e mistici santuari.
Anche la Chieti ipogea conserva immutata l’arcaico fascino dell’umore stillante, attestato all’esterno, nei siti archeologici, dal ricorrere dell’impluvium. Al pari sacre le acque nelle teramane Grotte del Salinello, spesso associate ai culti dell’Angelo, sostituto, in tempi cristiani, del pagano Ercole, sposo archetipico della Dea della Terra, portatore di clava per risvegliare i temporali e assicurare piogge copiose ai campi. Ancora acque miracolose quelle della Fontana rurale delle Sese nei pressi di Fallascoso, cara alle puerpere, come pure acque di guarigione quelle evocate dai riti antichissimi dell’aquilano Santuario di Sant’Ippolito per esempio, o dalle briose correnti che fluiscono presso le Gole di San Venanzio, con il loro eremo sospeso a ricordarci l’ardimento del santo.
Accanto all’acqua che salva e rende fertile, che consacra e purifica, caratteristica ulteriormente ribadita dall’introduzione del battesimo nei culti cristiani, c’è però l’acqua che condanna e distrugge: la Riserva dei calanchi di Atri è una memorabile immersione nella natura consumata, dilavata, corrosa per l’espandersi e il ritrarsi delle concrezioni d’argilla mutate in architetture sgraziate e tuttavia bellissime, distorto paesaggio lunare, infernale bolgia dantesca. Solo animali coriacei e vegetazione dalla resilienza estrema vi proliferano indisturbati.
Eppure non è stata forse l’acqua sorgiva unita a questa stessa argilla a rendere celebre l’artigianato della ceramica e la vasellameria più diversa, frutto dell’insigne tradizione di borghi e conventi, si considerino anche solo Castelli e Rapino?
E ancora acqua poesia, acqua svago, acqua riposo, acqua-pausa innestata tra i paesaggi di roccia: i grandi laghi d’Abruzzo, il lago di Campotosto, il lago di Bomba, il lago di Scanno, per restare al trittico più noto, offrono un tour ricco di epifanie inconsuete, coi loro occulti segreti, armi dei conflitti mondiali riaffioranti dai fondali, storie di maghi e donne fantastiche tramandate con dedizione, magnetismi inspiegabili, ittica nostrana, campeggi all’aperto, tramonti spettacolari…
La vocazione ricreativa si impone spesso con naturalezza nei luoghi all’acqua profondamente legati, si veda l’importanza attribuita alle antiche Terme romane di Chieti e a quelle moderne presenti a Caramanico, Popoli, per limitarci al pescarese, o ancora ai parchi acquatici, si pensi a quelli di Tortoreto o di Santa Maria Incoronata.
E accanto a questa acqua mobile e versatile, l’acqua che si fa neve per il piacere degli sciatori diretti a Prati di Tivo, Campo Imperatore, Ovindoli, Passo Lanciano, la Majelletta.
E più su l’acqua congelata delle vette, il ghiacciaio del Calderone, il più meridionale d’Europa ormai rattrappito, sconfitto dalla mutazione climatica inattesa, cancellato dal silenzio dell’uomo più che da quello della natura.
Un’acqua che ferma e uccide la vita nel gelo, e di nuovo un’acqua che nutre, quella del fiumi che hanno reso celebri nel mondo i nostri pastifici, i nostri maestri maccaronai, perché per fare la pietanza più famosa d’Italia, quella pasta così difficile da imitare, ci vuole il vento che soffia tra le gole e l’acqua che sa di montagna, ingrediente principe ma anche forza che fa girare le macine, e oggi rende noti a chiunque illustri produttori come l’antica De Cecco o la Delverde.
Ma anche le note inconfondibili dei vini d’Abruzzo dipendono dalla dolcezza del suo clima, delle sue acque che con severa indulgenza intridono la terra, irrobustiscono i vigneti, fanno raffinati o sanguigni i grappoli dal solare turgore, dalla diafana trasparenza.
Chi non conosce ormai il Montepulciano e il Trebbiano d’Abruzzo?
Il tour delle enoteche e le visite ai vigneti dell’interno o degradanti coi loro pastosi colori verso i lidi del vastese hanno la capacità di riempirci i sensi di odori e profumi indimenticabili, al pari dell’olio e del miele di queste zone, incomprensibili alchimie qualora non si tenga presente la costante magia dell’acqua, che nutre olivi contorti e di generosa rugiada bagna calici fioriti: per il grande antropologo Antonio De Nino, persino il sapore caratteristico e esclusivo dei confetti di Sulmona andava attribuito alla dolcezza indefinibile delle acque locali.
La flora e la fauna dell’Abruzzo sono tra le più rare e pregiate d’Europa, ma non sempre si evidenzia che se i suoi parchi, le sue riserve naturali, i suoi boschi secolari sono così celebrati, lo si deve alla ricchezza delle sue acque, alla doviziosa e imperitura influenza dell’Appennino che le alimenta. È infatti suggestivo tra tutti il tour dei canyon scavati nei secoli dal loro spumeggiare inesausto, si pensi alla bellezza scabra delle Gole del Sagittario, di Vallone d’Angora, Stiffe, Santo Spirito; per par condicio gli si affianchi però almeno, se non l’escursione alle commoventi sorgenti, lo splendido tour delle cascate, da quella del Vitello d’Oro e delle Ninfe a Zompo Lo Schioppo, per attenersi al minimo geografico. Ogni amante della canoa e del rafting, del resto, dovrebbe vivere qui un’estate di gloriosa esplorazione e avventura.
Certo, i nativi non si sono del tutto dimenticati di un’alleata a tal punto imprescindibile, e a San Pietro di Isola del Gran Sasso esiste da anni il Centro per le Acque del Gran Sasso e dei Monti della Laga, sorta di museo innovativo di tutto rispetto, all’acqua appunto dedicato: ai visitatori sono permesse esperienze multimediali e sensoriali assai diversificate, non ultima la mappatura tattile delle catene montuose per i non vedenti.
Acqua è dunque in Abruzzo anche gratitudine, Storia, riconoscenza. Riconoscimento. Coscienza.
E contraddizione. San Cetteo non venne forse martirizzato nell’Aterno?
Acqua è perciò anche futuro.
Che cosa ci prospetta oggi il futuro?
Che cosa sta succedendo nell’Abruzzo odierno?
Attualmente si vogliono autorizzare aziende straniere a trivellare l’Adriatico per cercare petrolio. Una battaglia che va avanti ormai da anni, tuttavia rilanciata dall’attuale governo, la cui filosofia pare essere “Meglio fare e pentirsi che non fare e pentirsi”, dimenticando che nessun pentimento tardivo sana mai l’irreversibilità dei disastri annunciati.
E allora, simili alle onde delle marine più irrequiete, anche gli abruzzesi si muovono, scendono in piazza, fanno cortei, organizzano sit in, scambiano volantini, pensieri, sondaggi, consapevoli che il futuro del loro mondo, passa da qui, interseca fatalmente il destino delle acque, come quello degli ebrei guidati da Mosè attraverso il mar Rosso.
Lo snodo cruciale parrebbe implicare il passaggio da una gestione del territorio votata a esaltarne le bellezze naturali, ovvero da un potenziamento progressivo di turismo e accoglienza – parametri che registrano una corrispondenza tra offerta e gradimento che pone ormai ai vertici la nostra regione – a uno sfruttamento più moderno e rischioso, in sintonia con le aggressive performance dettate dalla globalizzazione contemporanea, grazie alle quali si spera di recuperare posti lavoro e implementare un’economia di privatizzazione e mercato.
Il tiremmolla tra amministrazioni, cittadini e governo continua intanto imperterrito, esasperato. E arduo è ipotizzare come andrà a finire. Perché gli abruzzesi, è risaputo, sono sorprendentemente tenaci: hanno superato invasioni, terremoti, dominazioni straniere, conflitti culturali.
La scelta a venire sarà in ogni caso la svolta. E in tanti lo avvertono.
Nel frattempo un traguardo è forse raggiunto.
L’essenziale è per tutti oggi un po’ più visibile.
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About The Author
Luisa Gasbarri
Saggista, sceneggiatrice, studiosa del pensiero gender e docente di creative writing, ha inaugurato nel 2005 il genere noir shocking con il romanzo "L’istinto innaturale". Autrice di racconti apparsi in volume per diverse case editrici, ha curato lei stessa antologie di narrativa dedicate a scrittori contemporanei. Con la Newton Compton ha pubblicato con successo nel 2010 il manuale "101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita" e nel 2014 il libro "101 perché sulla storia dell'Abruzzo che non puoi non sapere ". Dialoga costantemente con i lettori dalle pagine del mensile «La Dolce Vita», che ospita da anni la sua rubrica, "Scritto sul Kuore".