Inter oscula et lenibus verbis
|Correva l’anno 1097 e il castello di Popoli era un fortilizio inespugnabile in mano
ai Berardi Conti di Valva. Ma entro la cerchia delle mura, in un giardino di delizie,
la Contessa di Prezza attendeva Ugo Malmozzetto …
A vederle all’imbrunire arroccate alle pendici del Morrone da cui domina le gole, il passo dei Tre Monti e le colline peligne, le rovine del Castello di Popoli evocano racconti sepolti in antichi codici che narrano le gesta di guerrieri e amori tragici, avvolti nelle ombre del mito. Come la storia di Ugo Malmozzetto e della Contessa di Prezza.
A tramandarcela è un insolito cronista: Giovanni di Berardo, estensore del Chronicon Casauriense e monaco in quella celebre abbazia. Tra vite di Santi, abati gloriosi e imperatori munifici, ad un certo punto, indulgendo all’enfasi e ad una colorita espressività, detta a Magister Rusticus, emanuense al suo servizio, perché li trascriva precisamente sul foglio pergamenaceo 237, eventi accaduti quasi un secolo prima, ma ancora drammaticamente vivi nella memoria del cenobio, e soprattutto nella sua mente, poiché quei fatti avevano coinvolto in prima persona la sua potente famiglia d’origine, quei Conti dei Marsi, discendenti da Berardo, detto il Francisco, sceso in Abruzzo, al seguito di Ugo di Provenza nel 843.
Il disprezzo per Malmozzetto, che pure era stato sepolto sotto la volta della chiesa abaziale, è palese: l’odiato nemico è stato un superbo, un violento, un avido, un usurpatore “Dei et hominum adversarius” tanto da meritare una misera fine (gravissima torqueri infirmitate) e la damnatio memoriae, di contro alla quale rifulge la virtù della dama, eroina e salvatrice della patria.
Ma prima di addentrarci nel racconto, che ha come scenario il Castrum Pauperi, è il caso di chiederci chi fosse Malmozzetto e perché Giovanni e tutti i Berardi lo odiassero tanto. Ugo di Maumezet, normanno e luogotenente di Roberto di Altavilla conte di Loritello di cui del resto condivideva le spietate imprese, era stato il tiranno rapace e incontentabile (cui non sufficerent si in manu haberet, etiam totus mundus), che non si era fermato dinnanzi a nessun delitto, come un lupo feroce, precisa Giovanni.
Siamo intorno al 1097; da qualche decennio i Normani hanno scolvolto i piani dei Berardi che avevano piazzato i loro eredi a capo delle istituzioni più importanti: i primogeniti nelle contee e i cadetti come abati a Farfa, a San Vincenzo al Volturno, a Montecassino, ovunque ci fosse da amministrare le rendite di estesi possedimenti tanto che i secondi, probabilmente contavano più dei primi.
La loro influenza si estendeva ormai fino a Benevento, dove avevano stretto importanti legami familiari e politici. Su tutti, in quel tempo, primeggia il volitivo Trasmondo, figlio di Oderisio I; due suoi fratelli sono rispettivamente uno abate a San Giovanni in Venere, l’altro vescovo di Chieti, egli stesso è nel contempo vescovo di Valva e abate di San Clemente, suo zio Desiderio regge Montecassino; ma soprattutto Trasmondo è il braccio destro di Ildebrando, il determinato monaco, divenuto papa con il nome di Gregorio VII.
È gente, questa, di forte carattere, capace di umiliare gli imperatori a Canossa tra la neve (anche qui complice una Contessa) o di ristabilire l’ordine a San Nicola a Tremiti, facendo accecare tre monaci e mozzare la lingua ad un quarto.
I Conti dei Marsi però sono abili diplomatici e sanno intessere accordi vantaggiosi; lo hanno già fatto con Ruggero, figlio di Tancredi di Altavilla e Adelaide del Vasto, e lo stanno facendo anche con il suo successore Ruggero II, ma su questo scenario piomba Malmozzetto, rapace avventuriero a cui i Normanni hanno affidato il compito di aprire la strada verso Napoli e Roma. Egli sostituisce la violenza alla mediazione e, più che seguire la politica del re, pensa ad accrescere il proprio patrimonio, a crearsi, se non uno stato, almeno una potente contea in cui sistemare i suoi sette figli. Per raggiungere lo scopo mette a ferro e fuoco città e abbazie, distrugge castelli, saccheggia, brucia, scanna, elimina chiunque gli si pari dinnanzi e, compiacendosi della sua stessa crudeltà, conduce vita dissoluta da scomunicato.
Ha già assaltato San Clemente, l’ha ridotta ad un cumulo di rovine fumanti, si è impadronito del suo immenso tesoro aureo, ha imprigionato Trasmondo per ottenerne il riscatto, ed ora si accinge a conquistare Prezza, consapevole com’è che la via che conduce a Napoli e a Roma, passa per Sulmona e Popoli.
Gli eventi sono drammatici e a nulla serve fronteggiarli con la resistenza e le armi; per fermare la furia di Malmozzetto occorre mettere in campo l’astuzia e far leva sui suoi stessi vizi che sono la libidine e l’inganno. A questo punto entra in scena la Contessa, eroina della famiglia Sansonesca nelle cui vene scorre sangue longobardo e franco, fusi insieme. Giovanni non ci dice il suo nome e ce la descrive appena, paragonandola alla biblica Giuditta: “mirabantur sapientiam eius et dicebant alter ad alterum: non est, talis mulier super terram in aspectu, in pulcritate et in sensu verborum”.
La fama della giovana “pulcherrimam et sapientem nimis” corre per le contrade e Malmozetto “ardens in concupiscientia eius”, si crede invincibile e dimentica di ogni prudenza.
La donna, ben conoscendo “mores luxuriosi” di un tal uomo gli manda a dire che vuole incontrarlo, vuole concedergli i suoi favori e concertare con lui la capitolazione del castello. In cambio chiede che egli la elegga a sua favorita e, per onorarne la virtù, la dia in moglie ad un barone. Il luogo fissato è il castello di Popoli, un recinto inespugnabile che chiude la torre pentagonale che ancora vi svetta. Ma tutto intorno è un giardino di delizie con gelidi ruscelli e polle zampillanti che scorrono argentini tra le piante.
Malmozzetto, che non sa dire di no a certi richiami, i quali, per di più, promettono di offrirgli due prede con una sola esca, tuttavia ignora che la giovane ha orchestrato il piano con i fratelli, suoi acerrimi nemici, che, nascosti nella fitta vegetazione del bosco circostante, gli tendono una trappola.
La dama, secondo un modello del romanzo cortese (di cui, insieme alla Bibbia ed ai Salmi, il nostro Giovanni sembra essere attento lettore) lo aspetta sul far della sera, assisa sotto un albero fiorito, con la sola compagnia di una pedisequa, insomma una fidata ancella, per salvare almeno le apparenze. Lo speranzoso innamorato vi giunge a cavallo (la cronaca avverte che gli furono fatali gli speroni) e indossando una “longam camisiam” ampia e ricadente fino ai piedi; in una parola fa a meno delle armi e si agghinda di sete e broccati come un damerino.
C’è da immaginare che, sceso dal destriero alla porta del bastione, poi procedesse cautamente per il giardino sentendosi, come in una cobla allora di gran moda: “Las, qui non sun sparvir astur, qui podis a li vorer – Ah perché non volo da lei come uno sparvierro o un astore!”.
Al fioco chiarore di una fiaccola, l’oggetto dei suoi desideri gli sarà infine apparso come una visione del paradiso. La donna lo intrattiene a lungo tra baci e carezzevoli parole (inter oscula et lenibus verbis) fino a che Malmozzetto le si inginocchia ai piedi. A dire il vero Giovanni chiarisce bene la situazione scrivendo in un latino che non necessita di traduzione: “illa dormire eum fecit super genua et in sino suo reclinare caput”.
La torre d’avorio era espugnata e mentre l’incauto conquistatore si applica ad ispezionarla in ogni recesso, non si accorge che intanto la serva gli ha intrecciato i bordi della tunica agli speroni, in modo da impedirgli il passo.
I fratelli della bella seduttrice entrano in azione e, legato com’è, lo trascinano in “firmissima castelli loca”, dove lo tengono prigioniero, fino a quando non avrà restituito a conti e baroni le terre usurpate. Il carcere dovette essere assai duro, perché di lì a poco Malmozzetto “sicur decens erat” fece la fine che meritava, stroncato da una gravissima malattia, giudicata (da Giovanni) la ineludibile punizione divina.
Della Contessa invece non si sa più nulla. Probabilmente andò sposa a qualche nobile che, conoscendo il suo ardimento, la tenne in gran conto. O forse finì a fare la badessa in un monastero, dove, qualche volta le sarà tornato a mente quando, una notte di primavera, seduta sotto un albero in fiore un cavaliere “la sintil imbracher, se buchschi duls baser, dussiri e repasar tu dulur – La gentile abbracciava, le baciava la dolce boccuccia, addolciva e placava il suo dolore”.