Il tempo passa ma non come sembra…
|A chi è capitato di fare un’escursione lungo le valli o anche semplici una passeggiata pedemontana nel versante orientale del Parco Nazionale della Majella sicuramente avrà notato una caratteristica evidente e particolare: interi borghi e paesi situati a quote collinari e quasi sempre posti a termine di interminabili valloni, dove la roccia “Madre” della Majella sembra letteralmente avvolgerli e proteggerli con i suoi bastioni e balze di roccia calcarea.
Un esempio concreto può essere il territorio comunale di Pennapiedimonte: da un’altitudine minima di poco più di 250 m s.l.m. in località Laio si passa a quella massima del M.te Focalone di 2.692 m s.l.m. o anche il territorio di Fara San Martino, dai poco più 440 m s.l.m. del centro abitato fino ai quasi 2.800 m s.l.m. del M.te Amaro.
Personalmente mi piace considerare questi dislivelli come dei veri e propri viaggi in verticale. E come se partendo dall’isola di Malta si risalisse pian piano verso Nord, fino alla punta più settentrionale della Norvegia, ossia Capo Nord; sicuramente le caratteristiche climatiche e non solo saranno completamente diverse. Stesso discorso quindi è partire da 200 m s.l.m e arrivare a 2.800 m s.l.m. dopo qualche ora di cammino.
Oggi però non voglio evidenziare le diversità delle caratteristiche naturalistiche e paesaggistiche che si incontrano man mano che si sale di quota, ma mostrarvi un aspetto forse più celato, ma appassionante ed emozionante che spesso mi è capitato di scorgere durante escursioni in solitaria e che successivamente ho cercato di trasmettere alle persone che ho avuto il piacere di accompagnare.
Prima di svelarvelo, credo sia però necessario fare una sorta di piccolo preambolo: il versante orientale della Majella si caratterizza per questi lunghi ed imponenti valloni rocciosi che originano da quote medio basse per confluire tutti assieme nei vasti ambienti cacuminali d’alta quota. Attualmente costituiscono l’idoneo habitat invernale e di svernamento per il Camoscio Appenninico, ma in tempi passati – quando le attività di pastorizia erano più che mai praticate – la presenza dei numerosi anfratti, rientranze e grotte rocciose hanno costituito la condizione spontanea e naturale per la creazione di numerose grotte-rifugio e bivacchi pastorali che erano il perno fondamentale nel semplice ma intrecciato processo della MONTICAZIONE.
Man mano che ci si allontanava dal centro abitato e si risaliva lungo la valle, tali grotte e bivacchi variavano di struttura e particolari; le più vicine ai centri abitati, assai semplici e sprovviste di bivacco per il pastore e casaro; le più lontane invece, sicuramente più articolate delle prime e magari vicine a sorgenti d’acqua, cercavano di avere le più semplici e piccole comodità che il luogo potesse offrire.
Oggi giorno – forse in positivo o forse in negativo – la pastorizia e il relativo processo di monticazione sono quasi del tutto scomparsi.
Dico quasi perché rimane ancora la testimonianza reale e viva del Sig. Domenico Di Falco (2014). Domenico pratica questo antico processo nel territorio montano di Fara San Martino, ed essendo l’unico, sono numerosissime le grotte disponibili a sua disposizione ormai abbandonate ed in balia del tempo che passa inesorabilmente.
Il tempo quindi passa e trascorre forse per alcuni anche duramente, ma se provate ad entrare oggi in silenzio, soprattutto nelle grotte più remote e quasi nascoste, respirerete ancora nell’aria lo spirito di sacrificio e lavoro, la solitudine e semplicità di un tempo e magari se cercate di immaginare, con un pizzico di fantasia, quel tempo… quei tempi… quei momenti… quel momento…
Un pizzico di fantasia e non troppa, perché basta semplicemente osservare i muretti a pietra a secco senza nessun collante o le staccionate di legno che resistono ancora senza nessun timore del tempo e del trascorrere delle stagioni, e allora non è difficile immaginare le capre e le pecore confinate nella recinzione o in procinto alla mungitura; scoprire un ombrello ormai danneggiato dal tempo, ma situato con cura dentro un incavo roccioso, all’uscita del bivacco; come se fosse pronto per esser preso di buon mattino, se il tempo dovesse
peggiorare improvvisamente durante la lunga giornata di pascolo che si annuncia; i resti di un paio di chiochie consumate, ma che sembrano rimanere lì, ferme, magari in attesa che qualcuno le riutilizzi; di un’ancora curata “sprisciator” (dal dialetto farese); e spontaneamente vien da pensare: chissà quante caciotte di formaggio avranno preso forma lì sopra attraverso l’abile manovalanza del casaro mentre il siero scendeva e colava via… forse ad indicare che il tempo trascorre solo apparentemente…
Luca Nardelli
Accompagnatore – Maestro d’Escursionismo
Visita l’Eremo di Grotta Sant’Angelo con Luca